Doverosa premessa: non sono solo di parte, di più.
Ho scritto libri sul silenzio (saggi, articoli…), sono il curatore scientifico di un festival (sì, proprio un festival del silenzio: www.festivaldelsilenzio.org), mi piace la retorica (quella che serve a vestire il linguaggio, non a svuotarlo), sono una grande ascoltatrice (molto più che osservatrice), considero sacri i segreti e custodisco quelli degli amici meglio di Tacita Muta (che, per inciso, era senza lingua. I Romani non andavano tanto per il sottile con le loro dee, tanto più con quelle del silenzio).
Seconda premessa: quando ho scritto il mio tacito manifesto, quasi vent’anni fa, mi credevo sola al mondo (dei rumorosi) e paladina di un’idea molto originale: che tacere potesse essere un potente strumento di comunicazione, emotivo, persino eversivo. Col tempo ho scoperto che a studiare il silenzio siamo in tanti, più e meno esperti, e che, prima o poi, tutti abbiamo fatto i conti con il vuoto, il non detto, quello che avremmo fatto meglio a non esprimere o a non sentire. Insomma, se le parole sono importanti, quelle omesse, taciute, mancate, lo sono altrettanto.
Terzo avviso: se siete di quelli con l’ipod perennemente acceso, che appena svegli si attaccano alla prima fonte di suoni raggiungibile (radio? tv? cellulare? Skype?)… prima di passare oltre, state a sentire. Il suono più debole che le nostre orecchie possono avvertire corrisponde a una vibrazione del timpano piccola come un brivido, o un battito di ciglia. Bello no?
Io non sono aprioristicamente contro l’inquinamento acustico né tanto meno contro i suoni (che si tengono per mano alle pause). Ed è questo il punto: lo spazio TRA, quell’essere in mezzo, fra ciò che è già stato detto, udito e quello che sta per esserlo, ma potrebbe anche non accadere mai.
Shakespeare sostiene che “ascoltare con gli occhi appartiene al fine ingegno dell’amore”. Il silenzio è un buon punto di osservazione.
Tanto per cominciare…
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