Una bella riflessione che arriva da un libro di Stefano Bolognini, sul silenzio fecondo e “maieutico”. Il titolo è già un capolavoro: Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire (Bollati Boringhieri). Scrive lo psicoanalista: «Non si sa che dire vuol dire che verrebbero in mente delle cose da dire, ma che si sente o si capisce che quelle cose lì non sono adeguate, non sono sufficienti, non bastano, non risolvono, non smuovono, non raggiungono, spesso non sfiorano nemmeno la complessità, la profondità, il senso di ciò che si è presentato sulla scena del discorso: tanto più se si tratta di un discorso condiviso, che dovrebbe funzionare significativamente per chi parla e per chi ascolta.
E allora ci si ferma, sull’orlo dell’abisso.
E non si dice.
(…)
Di solito, se si hanno la pazienza e l’umiltà di attendere – senza pretendere di saper già cosa dire, subito e comunque – le cose un po’ alla volta si collegano, si chiariscono, si combinano, si trasformano, assumono un’evidenza e un senso.
Allora, e solo allora, si sa che cosa dire.
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