Dal Messaggero di Sant'Antonio la segnalazione di un convegno di approfondimento:
Un convegno organizzato dal 3 al 4 settembre dalla comunità francescana di Sanzeno (TN), per scoprire insieme le dimensioni del silenzio e il suo intimo legame con la nostra più profonda umanità. (di fra Fabio Scarsato)
Il silenzio è «d’oro» quando crea ascolto, pace, comunione; è «figlio del diavolo» quando copre, isola, condanna. C’è il silenzio della spiritualità e della preghiera, e quello dei codardi e dei colpevoli; quello del rispetto e quello del tradimento; quello da cercare e quello da infrangere.
La duplice faccia del silenzio è il tema di «Rompere il silenzio! Tra Grande silenzio e silenzi colpevoli», quarto convegno organizzato, dal 3 al 4 settembre 2010, dalla fraternità francescana di Sanzeno (TN) in Val di Non, nella suggestiva cornice di Casa de’ Gentili, un palazzo nobile del ’500, a pochi chilometri da uno splendido santuario del silenzio, l’Eremo di San Romedio. Perché scegliere un tale tema in una società che vive quotidianamente in un rumore assordante e nello stesso tempo copre con un silenzio altrettanto assordante tutto ciò che non vuol sentire né vedere? Perché nella distinzione tra silenzio e silenzio ci giochiamo la nostra umanità. Il silenzio in cui scegliamo di abitare è ciò che ci distingue.
La dualità silenzio-parola inizia fin da piccoli. I genitori aspettano trepidanti i primi incomprensibili suoni gutturali del pargolo, faticano a insegnargli ogni parola, salvo poi passare la vita a imporgli di stare zitto, magari con un dito minaccioso sulle labbra o un urlo a squarciagola, in barba alla coerenza educativa. Eppure, forse proprio dalla rottura del silenzio o, meglio, dalla dinamica complessa di parola e silenzio è iniziata la nostra umanità. Chiamarsi, raccontare, condividere, cantare e pregare insieme, domandare e rispondere: quante esperienze fondamentali sorgono dalla parola. Rainer Maria Rilke, il grande poeta austriaco-boemo, alludendo al racconto biblico della creazione, suggeriva che gli esseri umani sono venuti al mondo perché Dio dall’eternità stava aspettando che qualcuno desse un nome alle sue creature e che chiamandole per nome le riconoscesse e le facesse esistere. Anche noi esistiamo se qualcuno che ci ama rompe il silenzio e ci chiama per nome.
E tuttavia, gli uomini hanno cominciato a essere un pochino meno uomini quando la parola ha preso il sopravvento ed è diventata urlo, pregiudizio, attacco, insulto, slogan, muro. Non c’era più silenzio tra le nostre parole sempre più ingombranti, ipertrofiche, escludenti; gusci vuoti e seducenti nelle mani del potere. «Mio», «negro», «vendetta» non erano più le sillabe della creazione. Ed è stata la torre di Babele, anche questa di biblica memoria. Confusione di lingue, cimitero di parole: da qui è rinata la nostalgia del silenzio.
È paradossale il silenzio: per parlarne bisogna romperlo. E invece, per ascoltarlo, bisogna che tutto, attorno e dentro noi, taccia. È sfuggente come un’anguilla il silenzio, ma senza di esso, sapientemente dosato, la Nona di Beethoven non sarebbe mai stata composta: è lui che mette in fila le note o le parole, che dal caos crea l’armonia dei suoni. Al punto che non sappiamo dire se sono la parola e il suono a interrompere il silenzio, o è il silenzio a interrompere i suoni.
Il silenzio, componente profonda di ogni uomo, diventa fondamento per chi vive di spiritualità. Il silenzio delle religioni – in alcuni luoghi o tradizioni persino rigido – non è solo orpello esterno, è sostanza impalpabile. È un «grande» silenzio. Ti assale di colpo quando varchi il portone di un monastero benedettino o la più umile porticina di un eremo francescano della Valle Reatina: ti sorprende, inizialmente ti atterrisce; di colpo speri che almeno il telefonino ti venga in soccorso. Poi pian piano ti accorgi che quel nulla è l’inizio, l’ansia si placa e, come accade agli occhi che si abituano gradualmente a vedere nel buio, finalmente tu percepisci il silenzio, lo senti dentro e intorno a te. L’imbarazzo cessa, mentre correnti profonde di relazione e comunione solcano mente e corpo. Ti accorgi che è un silenzio «fragoroso», abitato da mille voci. O forse da una sola: quella di Dio. Ti rimarrà dentro per sempre la nostalgia di un tale silenzio.
È un attimo, un incontro, un’illuminazione ma adesso è chiaro: quel grande silenzio è l’espressione più alta del bisogno di silenzio che alberga in ogni uomo. Lo sappiamo d’istinto ma non ci riflettiamo. Eppure la voglia di «staccare la spina», di ascoltare il rumore del vento, di sostare assorti sulla riva del mare sono echi di quel silenzio. A nulla valgono, per trovar pace, quell’infinità di «protesi sonore» (microfoni, altoparlanti, stereo, cuffiette, ipod, suonerie), che ci siamo inventati.
Ma il silenzio non è solo pace, ci sono luoghi in cui stona, è rumoroso, fuori luogo, persino colpevole. È un’arma a doppio taglio. C’è chi lo usa per «coprire» situazioni e storie scomode, per cancellare fatti e peccati, per aggiungere violenza a violenza, per giustificare vizi e inadempienze del potere, per poter dire «io non c’entro, io non lo sapevo».
Proprio da qui, da questa duplice faccia del silenzio, è nato il tema del nostro quarto convegno a Sanzeno. Il nostro approccio è volutamente interdisciplinare ed ecumenico, partendo dal presupposto francescano che non c’è nulla di autenticamente umano che non sia subito del tutto spirituale, e viceversa. Il nostro sogno non è solo quello di scandagliare le molteplici dimensioni del silenzio, ma quello di renderlo la lingua comune dell’umanità, il luogo dell’essere, la dimensione della fraternità. A differenza di ogni altra lingua non ha bisogno di traduzioni e traduttori, è uguale a tutte le latitudini, non cambia con il cambiare della cultura. E se proprio a un certo punto esso deve «essere rotto», che lo si faccia unicamente per incontrare i fratelli e le sorelle. Solo da questo silenzio le tante lingue e le tante culture non causeranno più alcuna Babele.
Il programma qui
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