NEW YORK - Ground Zero è finalmente piena. Il vuoto di quel luogo che spaventava gli americani, il vuoto che andavano a vedere i turisti, era quello il monumento più doloroso da sopportare. Silenzio e vuoto nel luogo di New York dove non esiste silenzio e dove non esistono vuoti. Quel luogo, la Zona Zero appunto, nel cuore di Manhattan, per dieci anni è rimasto vuoto. E da ogni parte d'America sono arrivati in migliaia per colmare quel vuoto. Colmarlo con la presenza. E due vasche costruite nel perimetro delle radici dei grattacieli sono lì ma non si sostituiscono alla presenza dei colossi.
Nessuno vuole che le cose tornino come prima, perché il rischio è di dimenticare. Never Forget è scritto ovunque. Per arrivare a Ground Zero devi superare diversi check point. La città ne è disseminata. Tutti in fila, spesso per lungo tempo, si lasciano perquisire. Non c'è nervosismo, ma desiderio di far andare bene le cose. Compostezza, disciplina. Gli americani sono qui per mostrare che non hanno paura, anche se Bloomberg, il sindaco di New York, aveva allertato in una conferenza stampa che il rischio di un attentato era "una minaccia credibile".
La commemorazione è scandita dai minuti di silenzio che ricordano il primo aereo schiantatosi contro le torri, poi il secondo, poi l'attentato al Pentagono, e l'aereo precipitato in un campo in Pennsylvania, e ancora un minuto per ogni crollo delle torri. Il silenzio di migliaia di persone riporta al vuoto. Migliaia di teste, migliaia di corpi in silenzio.
Ero arrivato qui con il pregiudizio che fosse una parata nazionalistica, certo che nessuno avrebbe evitato il rischio di cadere nella retorica, e si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di trovare nuova linfa a un consenso che la crisi economica e finanziaria ha ormai profondamente compromesso. Non è stato così. Mi stupisce l'intervento dei presidenti. Di Barack Obama e dell'ex presidente George W. Bush. Obama legge alcuni estratti del salmo 46 della Bibbia, Bush legge la lettera di risposta di Abraham Lincoln a una vedova della guerra civile. Poi si defilano, coperti da un vetro antiproiettile, che è lì come a tracciare le nuove bibliografie visive che dopo l'11 settembre hanno cambiato il mondo. Parlare dietro un vetro, avere una scorta di oltre 11 auto, cecchini disseminati sui grattacieli. Ma non si attendono parole d'ordine, non vengono pronunciati discorsi alla nazione. Tutta l'attenzione è per il ricordo delle vittime. Le istituzioni fanno un passo indietro. Non ci sono comizi. Nessuno ricorda la propria politica di risposta a quell'attacco, Barack Obama non approfitta dell'occasione per rinvigorire i suoi elettori prossimi a quella che racconteremo come la nuova Grande Depressione, e che nessuno più ormai definisce soltanto crisi. Hai la sensazione che nonostante le molteplici contraddizioni che vive questo Paese, gli Usa abbiano ancora chiaro un elemento: che le istituzioni, l'economia, la difesa, il lavoro, tutto è dato dalle persone. Nozione che solo apparentemente è scontata. Le persone non sono annullate nel ruolo simbolico e superiore dell'istituzione. È l'individuo il centro. È questo fondamento che genera per noi europei spesso anche grande smarrimento, abituati come siamo a lacci sociali e paracaduti familiari assai più forti.
La giornata è per le persone cadute. Per loro. Non solo per l'eroismo dei firefighters. Perse le persone, persa ogni cosa. E la cerimonia ha celebrato questo. Ancor prima che l'attacco agli Usa, al simbolo dell'economica mondiale, il World Trade Center, è una cerimonia per ricordare le persone. I portieri, le segretarie, le guardie giurate, i lavavetri. Sarebbe bello se le nazioni potessero apprendere da questa giornata. Se i media del mondo potessero ritrovarsi a raccontare il ricordo non solo di questa tragedia nella capitale del mondo: New York, ma anche il colpo di Stato della destra nazionalista cilena - avvenuto un altro 11 settembre, quello del 1973 - che portò alla destituzione del Presidente Salvador Allende e alla successiva dittatura militare di Pinochet, o le vittime di mafia.
Citare i nomi sembra quasi come realizzare la massima kantiana "l'uomo come fine e mai come mezzo". L'imperativo categorico che tanto astratto pare quando lo si incontra nelle pagine della Ragion Pura e tanto concreto appare qui, ascoltando queste infinite letture di nomi. Non ridurre tutto a un numero 2977. Il rischio è che la statistica, il numero riduca tutto. Sono cifre che col tempo ti sembrano persino piccole. Cifre che ci si abitua ad ascoltare. Cifre appunto. Le commemorazioni servono, credo, quando non sono un vacuo evento mediatico per acquistare consensi, ma per strappare da quei numeri la carne, la memoria, il ricordo, il dolore, la condivisione di una vita che è stata e spesso continua.
Quel lungo elenco di nomi letti dai parenti delle vittime, che quando arrivavano al nome del loro caro, dedicavano una frase, un ricordo. Tantissimi I miss you. Molti bambini che all'epoca erano neonati. E che raccontano di un padre mai conosciuto o di una madre appena ricordata, morti nell'attentato.
Mentre ascolto sento parlare in italiano: è la signora Dorotea Angilletta. Ricorda in lacrime sua figlia Laura. Pronuncia il nome e il cognome di sua figlia con l'accento americano "Lora Angileda" eppure quando si rivolge a lei, all'amata figlia scomparsa, le parla in italiano. La lingua che usa per dire le cose importanti, per far parlare i sentimenti: "Laura ti voglio tanto bene. Sarai sempre nel mio cuore".
Per qualche strana ragione proprio noi l'avevamo trascurato. Proprio noi italiani avevamo trascurato la presenza di decine e decine e ancora decine di italoamericani. Se ne era fatto cenno qualche volta, ma senza mai dare centralità alla cosa. Le parole della signora Angilletta sollecitano l'attenzione ad ascoltare i nomi letti. Centinaia di nomi italiani. Figli di italiani, nipoti di italiani, discendenti di italiani. Nomi meridionali: Esposito, Spampinato, Cammarata, Amato, Calabro, Cafiero, Ciccone, Curatolo, Coppola, Bocchino, Morabito sono solo alcuni dei nomi degli italoamericani morti qui. E poi parlano due politici americani nipoti di italiani Andrew Cuomo (figlio di Mario Cuomo) il governatore dello stato di NY, originario di Nocera Inferiore, la cui nonna parlava solo napoletano e non imparò mai l'inglese, e Rudy Giuliani.
Eppure questo legame non è abbastanza forte, all'interno il dibattito sulla tragedia delle Torri Gemelle è sempre stato un elemento marginale. Una sorta di rimozione. Gli italiani d'America, considerati americani per gli italiani ma italiani sin nel midollo per molti di loro. Una distanza nata dalla diffidenza italiana per i nipoti e cugini italoamericani diventati troppo potenti e dalla diffidenza italoamericana per una terra matrigna che aveva scacciato i loro genitori, nonni, antenati. E tutto si chiude con le note di Paul Simon, che canta un pezzo immortale, The Sound of Silence, che sembra scritto per l'occasione. E cala il silenzio.
And in the naked light I saw, ten thousand people, maybe more. People talking without speaking, people hearing without listening, people writing songs that voices never share. And no one dare disturb the sound of silence. E nella luce nuda vidi migliaia di persone, forse di più. Persone che parlavano senza parlare, persone che ascoltavano senza ascoltare, persone che scrivevano canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato. E nessuno osava disturbare il suono del silenzio.
Dall'articolo di Roberto Saviano su Repubblica, 12 settembre 2011
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